Nella moda, il dettaglio di un capo o di un accessorio spesso fa la differenza. Colori, stampe, una foggia particolare.
Ma di un’etichetta cosa sappiamo?
Ci mette in grado di ricostruire la filiera che si cela dietro un probabile prodotto globale?
- Chi, dove e come ha prodotto il capo che stiamo per acquistare?
- Quanti passaggi sono avvenuti dalla produzione della materia prima, alla distribuzione, fino a noi consumatori?
Se oggi è vero che un’etichetta tessile deve riportare obbligatoriamente:
- nome o marchio del fabbricante, dell’importatore oppure del distributore,
- composizione del tessuto con la dichiarazione delle fibre in percentuale, e
- istruzioni relative alla manutenzione,
eventuali altre indicazioni riguardo la fase di produzione o la qualità delle fibre tessili restano meramente facoltative.
In assenza di una regolamentazione internazionale in grado di mostrare l’effettivo rispetto delle convenzioni in materia di lavoro, salute, ambiente e sicurezza, il mercato si è organizzato producendo strumenti di autocertificazione sociale e ambientale.
Sono i codici di condotta: carte etiche o certificazioni nate con l’intento di dichiarare al consumatore la conformità di comportamenti in ambito sociale e ambientale. Ma i consumatori possono fidarsi?
Verso la trasparenza: auditing e certificazioni
L’invito è anzitutto a diffidare di dichiarazioni aziendali unilaterali. Se manca il confronto con le parti sociali – i tanto spesso citati stakeholder (lavoratori, sindacati, Ong, comunità, enti locali), che in qualità di portatori d’interesse sono i destinatari delle ricadute (positive o negative) dei comportamenti aziendali – diventa impossibile verificare la realtà dei fatti, e qualsiasi certificazione resta priva di un valore concreto.

Proprio per quanto riguarda filiere internazionali e autocertificazioni, il problema di individuare chi deve fungere da organo di controllo sulle questioni fondamentali del lavoro (salario dignitoso, discriminazione di genere, libertà di associazione sindacale, precarietà dei contratti di lavoro, salute e sicurezza) resta il punto fondamentale della questione.
Monitoraggio: la soluzione multistakeholder
Per ovviare alle lacune strutturali dei sistemi di monitoraggio commerciali, sono nate esperienze cosiddette multistakeholder. L’obiettivo è affidare questo tipo di controlli ad organismi terzi e indipendenti, rappresentando un’alternativa valida al business in crescita delle ispezioni sociali, che per la loro natura commerciale e dipendenza dal committente, non risultano idonee a questo compito.
In Europa, nel settore tessile l’esperienza multistakeholder più avanzata è quella di Fair Wear Foundation.
In Inghilterra e in Usa esistono rispettivamente Ethical Trading Initiative e Fair Labour Association.
Quali alternative al commercio mainstream?
Il movimento del commercio equo e solidale è stato il primo a riqualificare la relazione tra Nord e Sud del mondo. Il CEES ha creato partnership economiche con i piccoli produttori per sostenerne lo sviluppo, attraverso l’acquisto e l’accesso sui mercati del Nord di prodotti a prezzo equo per il produttore e trasparente per il consumatore, realizzando prefinanziamenti e altre forme di sostegno destinati alle comunità locali.
Oltre ai prodotti provenienti dal circuito italiano del commercio equo e solidale, sono presenti sul mercato quelli certificati da Fairtrade Italia.
Questo marchio dichiara di garantire il rispetto dei criteri del fair trade per la parte agricola, attestando che il cotone contenuto nel capo è materia prima 100% equa e solidale, OGM free.
Cotone certificato Fairtrade non significa certificato biologico, ma prodotto secondo gli standard della lotta integrata in agricoltura.
I prodotti provenienti dal circuito equo e solidale o con marchio Fairtrade spaziano dall’abbigliamento all’intimo, scarpe e accessori inclusi.
Provengono da filiere lunghe da un punto di vista geografico (Asia, Africa, America Latina), ma basate su stretti rapporti di collaborazione.

Ci sono poi prodotti ecocombatibili, in grado di ridurre l’impronta ecologica della produzione, concentrandosi sull’utilizzo di tessuti rigorosamente naturali, organici, trattati con tinte naturali, tesi appunto alla riduzione di rifiuti non riciclabili.
Se un prodotto è certificato bio, significa che questo riguarda tutta la filiera. Non significa invece assenza totale di prodotti sintetici e chimici nel processo produttivo, ma piuttosto il massimo contenimento di un loro possibile utilizzo, adottando prodotti biologici ove esistenti e processi produttivi e chimici alternativi che minimizzino l’impatto sull’ambiente e la salute delle persone.
Un prodotto bio indica un cotone 100% certificato biologico senza pesticidi, fertilizzanti chimici dannosi e OGM. Nel processo di manifattura non sono impiegate sostanze chimiche pericolose, le sostanze alcaline sono riciclate e non rilasciate in acqua e tutti i rifiuti sono trattati.
Merita spazio anche la moda dell’usato: questa ha origine negli anni 60 del mondo anglosassone, quando hippies e contestatori ebbero per primi l’idea di rivisitare in maniera creativa abiti smessi trovati nei mercatini.
Abiti e accessori vintage si possono trovare in negozi specializzati, in mercatini e fiere. Spesso vengono raccolti, processati e rimessi a nuovo da cooperative sociali.
Anche il baratto è una buona pratica, presente in Italia grazie a fiere specializzate e iniziative di scambio autogestito.

Quante sono quindi le strade percorribili per una una moda etica?
Commercio equo e solidale
Le organizzazioni del commercio equo e solidale accreditate Agices (Associazione generale italiana del commercio equo e solidale) espongono i propri prodotti presso le “Botteghe del Mondo“, negozi specializzati, oppure online.
Filiere corte
Filiere corte, solidali, oppure da cooperazione sociale.
Valorizzano la produzione locale, l’inserimento lavorativo di soggetti deboli, la riabilitazione sociale in carcere, l’autogestione e le imprese recuperate e sindacalizzate.
Multistakeholder
Capi provenienti da imprese coinvolte in iniziative multistakeholder di monitoraggio della filiera come Fair Wear Foundation, Ethical Trading Initiative, Fair Labor Association, o Social Accountability International.

Marchi volontari
Capi certificati con marchi come:
- Ecolabel
- Oeko-Tex Standard 100 (rilasciato dal Centro Tessile Cotoniero e Abbigliamento S.P.A.)
- GOTS (Global Organic Textile Standard rilasciato da Icea)
Naturali
Capi in fibre naturali e biologiche, trattati con tinture biologiche o a basso impatto ambientale. In caso di assenza di certificazione di prodotto, accertiamoci che almeno la materia prima sia certificata.
Recycled
Capi prodotti da imprese che adottano politiche virtuose in relazione all’efficienza energetica, alla gestione del ciclo dei rifiuti, al riciclo e riuso dei materiali, al packaging.
Vintage / Second hand
Tutti capi o accessori rigorosamente usati, ma dall’inconfondibile stile rétro.
Cruelty free
Capi ottenuti senza violenza sugli animali e senza utilizzare componenti testati sugli animali.
Per approfondire
Deborah Lucchetti – I vestiti nuovi del consumatore. Guida ai vestiti solidali, biologici, recuperati: per conciliare estetica ed etica nel proprio guardaroba. Altreconomia Edizioni
(Immagine in evidenza di markusspiske da Pixabay)